Bisognerebbe andare a scuola di intimità. Crediamo che amarsi, o peggio ancora, essersi amati, giustifichi il varco di ogni confine tra noi e gli altri. Scambiamo per intimità la sua più esasperata parodia: possesivita’, gelosia, dipendenza, dedizione illimitata. Intere giornate sprecate in litigi interminabili, la ripetizione ingorda di dinamiche sempre uguali. La convinzione assurda che tutto questo possa ripetersi all’infinito, che il semplice fatto di essersi amati una volta possa garantire un luogo franco, in cui odiarsi per sempre. Il mito dell’autenticità sembra giustificare ogni eccesso. Amare significa per molti un intreccio fusionale che elimina tutto il mistero. L’illusione di conoscersi a fondo trasforma la discussione in un continuo anticiparsi, il giudizio diventa pregiudizio, l’ascolto interpretazione. Da questa bugia millenaria che l’amore sia aldilà del bene e del male, il corpo si sottrae per primo, si nega, si ammala. Il corpo vede meglio della mente, perché recupera prima la distanza. Si continua a litigare ma il sesso non si fa più. Il corpo si vendica delle manipolazioni, punisce le aggressioni, traccia confini invalicabili laddove le menti restano invischiate.
Il film su Netflix Malcom e Marie rappresenta perfettamente la grande illusione che, in nome dell’amore, si possa dire o fare qualsiasi cosa.Che amarsi sia quasi una forma di resistenza ad ogni male, che la natura dell’amore sia quella di essere incondizionato, di superare ogni confine fisico e psicologico.
Malcom e Marie rappresentano perfettamente la differenza di genere tra il maschile e il femminile. Lui è un regista che durante la prima del suo film dimentica di ringraziare la sua compagna. La discussione che si scatena, una volta rientrati a casa, rivela una dinamica comune tra uomo e donna. Malcom non comprende il bisogno di riconoscimento di Marie. Pensa che il suo amore per lei sia sufficientemente provato dal suo stare con lei. Sottolinea il suo esserle stato accanto quando era depressa, addirittura senza fare sesso per sei mesi. Continua a considerare una semplice dimenticanza quel gesto mancato che, invece, è la battaglia finale di una lunga guerra sotterranea. Quando, infatti, lei rivendica di aver ispirato con la sua vita, di ex tossica, la storia del film, lui le elenca, sadicamente, tutte le ex, improbabili muse, da cui avrebbe tratto ispirazione.Accusa lei di avere poca autostima e, intanto, la priva della più necessaria illusione d’amore, quella di essere l’unica. Crede che le parole di lei siano il risultato della sua frustrazione di attrice mancata, insana invidia, sottile piacere di rovinargli la festa. È convinto che lei, attribuendo a se stessa il personaggio del film, voglia sminuire la sua creatività e il suo successo. Ma soprattutto si difende dall’idea, tipicamente maschile, che essere messo in discussione da una donna, comporti la perdita della propria mascolinità, che rispondere ad una richiesta di attenzione significhi cedere ad un bisogno di controllo da parte di lei. Lui dimentica di ringraziarla perché vuole che sia chiaro al mondo che lui non è assoggettato a lei, un po’ come gli adolescenti che scalpitano per dimostrare la propria indipendenza dai genitori. Alla tensione del desiderio si contrappone la necessità di differenziarsi, di staccarsi, anche a costo di usare parole aggressive e svalutanti.Marie capisce bene il senso di quella omissione, la volontà di sminuire il sentimento per non riconoscersi vincolato, subordinato. Ma la convinzione di non meritare di essere amata, a prescindere dal suo essere indispensabile, la porta a credere che lui l’abbia usata per scrivere il film, e che il suo essere riconosciuta passi, sempre e comunque, dal dovere di accudimento.Così mentre lui urla offese meschine, lei gli prepara un piatto di pasta.
Un massacro emotivo che rivela una dinamica nota, che sottende qualcosa di già accaduto migliaia di volte, preludio di baci, di sesso, di ragioni per esistere e sentirsi vivi. Eppure il filo si spezza, il corpo di lei si rifiuta di risolvere tutto nel solito atto. Marie confessa la sua fragilità e la sua insicurezza, il suo confrontarsi continuo con il fantasma di altre donne, il suo tentativo costante di essere degna, migliore. Lui invece non teme niente, non è geloso, non fa niente per rendersi amabile, da’per scontato che basti il suo essere maschio, la sua presenza, il suo desiderio.
Non basta essersi amati per amarsi per sempre.
Non tutto si può dire. Marie lo dice chiaramente, non puoi svelare il tuo mistero, pensare di tormentare l’immaginario di una persona e uscirne indenne. Il potere di ferire profondamente può dare la sensazione di possedere totalmente qualcuno, e che questo gioco posa durare in eterno. Ma le parole non sono tutte uguali, alcune pesano troppo, sono pietre, punti di non ritorno. Dormono accanto, dividono il letto ma niente è come prima.
La giusta distanza mantiene in vita il sentimento, ci vuole slancio ma anche un grande controllo,la capacità di frenare le parole, di fare silenzio. Soprattutto molto Rispetto.
“Deporre l’elmo”diceva Franco Cassano, come tutti i gesti non ostili, deve rischiare qualcosa per essere credibile. Infatti è un gesto unilaterale, una sfida che uno lancia per portare l’altro in una zona franca, condivisa, che porti a rispondere con un gesto di fiducia. Rispettare il mistero,il confine dell’altro, questo significa in amore deporre l’elmo, un gesto di resa preludio di vittoria.
Come farti capire che la forma non si perde con l’aprirci. Che aprirci non è amare indiscriminatamente. Che non è proibito amare. Che si può anche odiare. Che l’aggressione è perché si ferisce molto.Che le ferite sì rimarginano. Che le porte non devono chiudersi.Che la maggiore porta è l’affetto. Che gli affetti ci definiscono.Che non quanto più forte si fa il segno più lo si scorge.Che cercare un equilibrio non implica essere tiepido.Che negare parole implica aprire distanze. che non c’è nulla di meglio che ringraziare.Che l’autodeterminazione non è fare tutto da solo.Che ferirsi non è dissanguarsi. Che siamo tutti muratori di muri.Che retrocedere può essere anche avanzare.( Mario Benedetti)
Mi chiamo Alessandra Pennetta, sono un’insegnante di Storia e Filosofia, divorziata, fidanzata. Ho due figli di 17 e 21 anni, una madre ottantenne, un bassotto pelo ruvido. L’idea di fare un blog nasce dal piacere di comunicare, di dare e ricevere consigli, di stare al mondo con una postura nuova, affrontando gli eventi in modo attivo, tonico, personale.