Quanti amori ci è dato di vivere nel corso di una vita? C’è un solo grande amore in una cornice di surrogati oppure l’amore più grande è sempre quello che stiamo per vivere? E’ più facile amare nel ricordo selettivo e nostalgico del mai più, nel tempo filtrato che elimina gli scarti, o nel desiderio idealizzante del non ancora? Perchè è inutile negare che l’amore più difficile da sentire è quello del presente, del qui ed ora, l’amore pesante dei giorni spenti, dei litigi inutili, della burocrazia dell’esistente.
Le storie non cominciano quasi mai dall’inizio, dal primo incontro, non seguono una linea progressiva srotolandosi come un nastro. Procedono per salti, in modo imprevedibile e non sempre verso il meglio, verso cioè una maggiore intimità. Il percorso è pieno di ostacoli e di esiti imprevisti. Ci sono momenti di allontanamento, altri di avvicinamento, l’intensità dei sentimenti varia continuamente.
Ci sono storie che durano anni ma non sono mai arrivate ad un punto di realizzazione, storie gomitolo che si avvolgono su se stesse, senza seguire mai una direzione, un passo avanti e tre indietro, il miglior modo di rimanere immobili con l’illusione del movimento.
Ci sono poi le storie valanga, quelle che travolgono subito ogni cosa ma non arrivano a costruire nulla di nuovo, troppo peso ha, al loro interno, quel passato a cui si è dovuto rinunciare.
Ci sono amori fusionali, quando sei molto giovane e ancora in grado di smussare le acerbe identità. Ci sono amori da abili artigiani, quando in momenti di equilibrio, maturità e calma piatta, dai il meglio di te in una storia razionale e attenta al dettaglio, prendendoti il tuo tempo in una danza già segnata dal solco della tradizione. Ci sono amori da naufraghi, quelli che nascono sull’onda della paura di stare soli, quelli che preferiscono il poco al niente.
Il senso di un amore lo si comprende realmente solo alla fine, inutile infatti tentare di ritirarsi dal gioco con la vincita in tasca, questa diventa palese solo quando si comincia a perdere. Col tempo appare doveroso fare i conti con la memoria, ripercorrere ciò che il ricordo ha filtrato e dare a ciascuno di coloro che abbiamo amato la giusta collocazione, o meglio quella che riteniamo funzionale all’unica storia che ci vogliamo raccontare come nostra.
Solo la narrazione ci consente di contenere gli eccessi e le sbavature di quelli amori che, per loro stessa natura, sfuggono alle definizioni. Lo spazio dentro al cuore è limitato. Per farci entrare qualcosa di nuovo dobbiamo ridurre qualcosa di vecchio. La rilettura del passato, quindi, tende a sminuire il sentimento provato per attribuirlo in modo più incisivo al nuovo che si sta vivendo. Quando questo non avviene, quando il passato idealizzato giganteggia su un presente, mai all’altezza per definizione, si nasconde dietro alla teoria che esista un unico grande amore nella vita di ognuno, l’incapacità di tornare ad amare.
Infatti c’è chi ha bisogno di amare sempre e chi no. C’è chi ha bisogno di amare a sedici anni e dopo no. C’è chi si sazia di realtà e non ha più spazio per il sogno. E se sei sazio di realtà vedi gli esseri umani per quello che sono e non riesci più a innamorarti
Nell’Amore che dura di Lidia Ravera Carlo ed Emma sembrano legati da un sentimento che rimane identico e resiste ad assenze di decenni, a nuove relazioni, a vite distanti in mondi agli antipodi. Forse il segreto è la chimica dei corpi? Oppure che l’amore legato alla giovinezza ne conserva per sempre il rimpianto? O forse i due protagonisti sono capaci di mantenere vivo questo sentimento perchè entrambi affetti da una forma di narcisismo creativo, lui egocentrico e seduttivo, con grandi velleità artistiche, lei, altruista irriducibile, con l’idea, apparentemente opposta, di poter salvare il mondo. Forse quello che li lega indissolubilmente è proprio la capacità di idealizzare l’altro, la fantasia di renderlo l’unico al mondo, e di fuggire l’inevitabile delusione, rimanendo fedeli ad un codice di comportamento che li renda conosciuti e prevedibili, per sempre. Così relazioni ventennali con altre persone sembrano non aver lasciato segno, come se gli altri fossero solo sbiadite comparse del tema principale che scritto in gioventù non ammette varianti.
Qual è l’amore che dura? Quello in cui accetti la sfida della quotidianità andando incontro alle esigenze dell’altro, accettando le sue imperfezioni forti di una comunanza di valori, oppure quello in cui l’altro è un fantasma che insegui, che ti insegue, il tuo pezzo mancante?
A chi è orfano di un amore così perfetto non resta che rifugiarsi nelle parole di Charles Bukowski:
L’amore è una forma di pregiudizio. Si ama quello di cui si ha bisogno, quello che ci fa stare bene, quello che ci fa comodo. Come fai a dire che ami una persona quando al mondo ci sono migliaia di persone che potresti amare di più, se solo le incontrassi? Il fatto è che non le incontri.


Mi chiamo Alessandra Pennetta, sono un’insegnante di Storia e Filosofia, divorziata, fidanzata. Ho due figli di 17 e 21 anni, una madre ottantenne, un bassotto pelo ruvido. L’idea di fare un blog nasce dal piacere di comunicare, di dare e ricevere consigli, di stare al mondo con una postura nuova, affrontando gli eventi in modo attivo, tonico, personale.