E’ intelligente ma potrebbe fare di più. Questa frase politically correct suggella tutti i colloqui tra professori e genitori di alunni, non proprio brillanti a scuola. Detta in modo sbrigativo, per rassicurare genitori delusi e amareggiati dalle notizie nefaste sul percorso scolastico dei propri figli, per stemperare la tensione crescente in un confronto non sempre sereno, è in realtà tutt’altro che banale. Racchiude infatti due concetti fondamentali: l’intelligenza non può essere valutata, la volontà e l’applicazione sono fondamentali per raggiungere il risultato.
Che un ragazzo sia intelligente, infatti, non può essere messo in discussione, per il semplice fatto che l’intelligenza, nelle sue molteplici forme, non è misurabile. A scuola ciò che può essere valutato è, tutt’al più, l’apprendimento.
La scuola premia un tipo di intelligenza generica, flessibile, capace di adattarsi ai vari contesti. Il successo scolastico oggi prevede il raggiungimento di competenze spendibili trasversalmente, partendo dal presupposto che l’intelligenza sia versatile, buona per qualsiasi applicazione. Tutto questo va a discapito di quelle intelligenze particolarmente dotate, ma votate, in modo poco flessibile, verso un’unica inclinazione. Queste intelligenze divergenti, più creative e meno conformi nelle soluzioni dei problemi, sono penalizzate dal sistema scolastico. E questo è molto grave se pensiamo che sono proprio questo tipo di eccezioni che hanno consentito il progresso dell’umanità.
Ogni forma di intelligenza dovrebbe poter essere valutata nella scuola. Gardner nella sua teoria delle intelligenze multiple elenca una serie di caratteristiche specifiche( intelligenza musicale, spaziale, corporea, linguistica, logico matematica, psicologica) che avrebbero bisogno di altrettanti materiali educativi per svilupparsi. Una differenziazione delle attività curricolari che includa il movimento, la pittura, la musica, il contatto con la natura, introspezione e interazione, trova sempre un maggior coinvolgimento degli alunni, che possono, in questo modo, dimostrare e a volte scoprire i propri talenti. Oggi invece ci si concentra solo sulla misurazione dell’intelligenza logico matematica, dando priorità alla tecnica con le sue modalità calcolanti e funzionali, e lasciando morire quel potenziale creativo, necessario alla nostra evoluzione. Pensiamo a come la diffusione di test di valutazione o di ammissione, per esempio alle facoltà universitarie, basati su una logica binaria, si-no, vero-falso, 0-10, capace di valutare solo capacità logico matematiche, impedisce a giovani validissimi di accedere a studi in cui potrebbero raggiungere risultati eccezionali.
Una scuola che voglia essere realmente inclusiva dovrebbe essere in grado di lavorare non solo sui disturbi dell’apprendimento, ma anche sulla molteplicità delle intelligenze per consentire ai ragazzi con inclinazioni più specifiche di trovare nella scuola stessa il loro riconoscimento.
Gli anni della scuola sono per gli adolescenti gli anni in cui si consolida l’identità. L’autostima è la base su cui si costruisce la conoscenza. Un ragazzo che non viene riconosciuto, perchè va male a scuola, cercherà quel riconoscimento in altri contesti, magari pericolosi. Ecco perchè è importante che nella scuola tutti possano trovare lo spazio della loro realizzazione, attraverso l’implementazione della vocazione di ognuno nella sua specificità, uscendo dalla logica del profitto, parola terribile mutuata dal mondo economico, che riduce l’educazione ad un fatto puramente quantitativo.
Il mito della buona volontà è alla base di quel non si applica, potrebbe fare di più. Come se potesse esistere un’astratta volontà al di fuori di un reale interesse, se non per certe personalità mistiche, votate al sacrificio.
Quando un docente dichiara la distrazione e lo scarso impegno dei propri alunni sta dichiarando, in un certo senso, il proprio fallimento.
Alla base dell’apprendimento c’è sempre un atto d’amore. La più interessante delle discipline può morire tra le mani di un professore svogliato o incompetente, come anche un rapporto di stima e affetto con il docente, può portare i ragazzi a studiare qualcosa che odiano, solo per non deluderlo. Non ci può essere vero apprendimento se alla base non c’è un rapporto di stima e fiducia tra allievo e insegnante.
In una bellissima intervista Daniel Pennac racconta i suoi insuccessi scolastici e l’incontro risolutivo con un insegnante che, accortosi della sua grande capacità di immaginazione nell’inventare ogni giorno scuse per non studiare, gli assegna il compito di scrivere un romanzo, dieci pagine a settimana, trasformandolo da studente passivo e svogliato in uno studente attivo, che crea un romanzo. Questo insegnante così attento alle specifiche qualità dei suoi alunni ha cambiato la vita di questo grande scrittore, facendogli trovare la sua vocazione.
Oggi non è semplice questo tipo di approccio, perchè in una scuola azienda in cui gli alunni sono clienti anche il sapere diventa merce, la valutazione si articola in debiti e crediti, l’utenza genitoriale confonde la relazione educativa con l’emissione di un servizio, idea che genera un confronto spesso aspro tra professori e genitori. L’ottica non è più infatti quella della collaborazione e della fiducia ma della prestazione.
L’insegnamento non sarà mai un lavoro come un altro e non sarà mai un asettico trasferimento di dati e nozioni. Se non c’è amore il sapere non passa, se non c’è stima il sapere non resta, se non c’è curiosità, apertura, interesse il sapere non dura.
L’insegnante mediocre dice. Il buon insegnante spiega. L’insegnante superiore dimostra. Il grande insegnante ispira
Mi chiamo Alessandra Pennetta, sono un’insegnante di Storia e Filosofia, divorziata, fidanzata. Ho due figli di 17 e 21 anni, una madre ottantenne, un bassotto pelo ruvido. L’idea di fare un blog nasce dal piacere di comunicare, di dare e ricevere consigli, di stare al mondo con una postura nuova, affrontando gli eventi in modo attivo, tonico, personale.