The happy prince

L’ultima parola non può essere lasciata alla natura. Un corpo nudo non è seducente senza l’intervento dell’artificio, senza l’ammiccamento, senza il gioco dell’apparire e dello sparire, senza la provocazione del desiderio in vista della sua delusione. (J. Baudrillard)

La lussuria va oltre la carne, è una creazione dell’uomo. Il corpo consegnato alla sua semplice natura non erotizza se non c’è proiezione, invenzione e fantasia. E la fantasia, oltre ad essere la risposta dell’uomo alla banalità del reale, è anche il potenziale sovversivo di ogni ordine.

Delizia e stupore dell’Inghilterra vittoriana, Oscar Wilde aveva impersonato la lussuria più  scandalosa e l’anticonformismo più autentico. Era stato un insolente, desideroso di affascinare e stupire con ogni sua parola, un attore nel ruolo dell’esteta raffinato e del poeta decadente, in ogni caso mai un uomo qualunque.

Nel film di Rupert Everett “The happy prince” Oscar Wilde appare nella sua parabola discendente da artista, un tempo venerato dal grande pubblico, a uomo distrutto e completamente in miseria, che si aggira nei bassifondi di Parigi, cercando momenti purpurei con giovani mercenari. Un titolo paradossale perchè dell’antica felicità sono rimasti solo momenti di funerea tenerezza. La narrazione procede con frequenti flashback, spaziali e temporali, una spirale all’indietro, dove le esperienze più dolorose si alternano a quelle felici, passando da Parigi a Posillipo, da scene buie e claustrofobiche a paesaggi colorati e surreali, con situazioni caricaturali come l’orgia dei femminielli. Lo scrittore appare sedotto dal vizio, dall’ossessione per il giovane aristocratico Bosie che lo ha portato alla rovina economica, alla prigione per sodomia, all’allontanamento dalla moglie e dai figli. Uscito di prigione ricerca, ancora una volta, una libertà sessuale più autentica e asseconda il desiderio di fuggire da una rispettabilità prefabbricata, di cui la moglie è diventata simbolo. E questo lo mette nella condizione di ornarla di ogni virtù possibile, per aumentare la distanza da lei e giustificare così la sua partenza.

La distruzione del suo mondo, il senso di colpa, la repulsione sociale non sono sufficienti a tenerlo lontano dalle tentazioni. Come il principe della favola, che fa da fil rouge di tutta la storia, l’artista appare un monumento bellissimo ormai in decomposizione, perennemente in bilico tra il sogno e la brutale realtà.

Il centro motore della vita di Wilde è il peccato, si illude di poter portare avanti una sorta di neopaganesimo, una nuova estetica. In realtà la sua peggiore colpa non è la perversione ma l’aver provocato uno scandalo, nell’illusione di poter fare della sua vita un’opera d’arte. La disapprovazione sociale esplode, in tutta la sua violenza, in due scene fondamentali nel film, perchè mostrano un uomo profondamente segnato dal carcere. Umiliato in catene alla stazione, circondato e sputato dalla folla, e poi insultato e inseguito da un gruppo di giovinastri sino in chiesa, dove esplode la sua rabbia disperata quando urla di non avere più niente, di essere già morto. La gente vede dall’esterno e non comprende che certi atti riprovevoli possono essere facili e spontanei, come la maggior parte degli atti umani. E’ più facile indignarsi che pensare che la natura è più varia di quel che possa immaginarsi e che anche la colpa può contenere una sua purezza.

L’altro Wilde è quello che vale un film forse un po’caotico. Quello che si  muove con paradossale e consapevole leggerezza in un corpo malato e appesantito. La sua apparente frivolezza addolcisce la miserabile condizione in cui vive gli ultimi giorni della sua vita, cercando di restare fedele a se stesso, e lo rende amabile e umano.

A torto crediamo che le esperienze della vita ci trasformino, in realtà la vita ci consuma e fa cadere, via via, le convinzioni e le convenzioni che abbiamo acquisito e che ci separano da quella che è la nostra vera natura. Si torna sempre ad essere come si era un tempo, è una lotta vana.

Vivere è difficile. Ho costruito abbastanza teorie morali per non costruirne altre contraddittorie: sono troppo ragionevole per credere che la felicità non stia se non sull’orlo di un peccato, eppure preferisco sempre il peccato piuttosto che una negazione di sè, così vicina alla demenza. La vita mi ha fatto ciò che sono, prigioniero di istinti che non ho scelto, ai quali mi rassegno, e questa accettazione, spero, in mancanza di felicità mi dia serenità. (M. Yourcenar).