Lo sai come si fa a riconoscere se qualcuno ti ama? Ti ama veramente dico? Credo che sia una cosa che ha a che vedere con l’aspettare. Se è in grado di aspettarti, ti ama. (A.Baricco).
Anche la persona più impaziente, se ama, impara ad aspettare. Non ci sono differenze sostanziali tra uomo e donna, la capacità di attendere, di fronteggiare l’ansia, il tormento e la delusione che ne derivano, sono caratteristiche individuali di ognuno di noi. Dal punto di vista emozionale l’attesa è sempre una circostanza spiacevole a cui non si sa come porre termine, dato che dipende completamente dall’altro. Aspettare sollecita la nostra immaginazione e la fantasia con cui colmiamo il vuoto che deriva dal silenzio dell’altro, potenzia la fascinazione che quello esercita su di noi. Chi attende è il più debole, fragile, insicuro. I dubbi e le incertezze paralizzano l’individuo rendendolo incapace di reagire. Si arriva a pensare che l’unica possibilità di porre fine alla propria sofferenza sia continuare ad attendere, nella speranza di essere premiati, o, quantomeno, nell’illusione di poter rimandare il momento in cui si avrà la consapevolezza di aver atteso invano. Aspettare qualcuno, comunque, riempie la vita ed esorcizza la paura della solitudine. Anche se, nelle giornate di attesa, fuori dalla finestra, è sempre buio.
Nei “Frammenti di un discorso amoroso” Roland Barthes afferma che l’innamorato è colui che attende, anche quando prova ad impegnarsi a fare altro, è sempre in anticipo. Infatti chi ama organizza la sua giornata su quella dell’altro: lo sguardo ossessivo sul telefono alla ricerca di un messaggio, di un segno di interesse, l’andare nei luoghi che frequenta con la speranza di incontrarlo, ammorbare amiche e amici con la descrizione dettagliata dell’ultima conversazione avuta, passare le ore per decifrare uno sguardo, un saluto, una frase banale che si immagina ricca di chissà quali sottintesi. Nei momenti di lucidità chi attende vede la conferma della sua sudditanza nell’indifferenza con cui l’altro sembra accogliere le sue iniziative. Chi fa attendere mette in atto una pratica millenaria di gestione del potere, pronto ad intervenire, con piccole dosi di illusione, nel momento in cui sembra che l’altro si stia allontanando. E’un gioco sottile tra chi chiede e chi si sottrae, chi si allontana e chi, allora, cede.
Ci vuole una grande maturità per saper attendere e soprattutto la capacità di reggere la frustrazione.
L’amore non sempre è innamoramento reciproco, i tempi possono essere diversi per mille motivi. Ma, soprattutto, perché, se è vero che per innamorarsi bisogna essere vuoti, cioè inconsciamente disponibili e in attesa di un’occasione, non sempre l’altro è abbastanza vuoto quanto noi.
Quindi, se la nostra non è fissazione o punto di orgoglio ma un sentimento vero, vale la pena di provare a noi stessi e agli altri di essere capaci di attendere.
L’attesa diventa un percorso personale che porta a sperimentare i nostri limiti, ma anche la nostra capacità di allucinazione. Devo infatti creare un rapporto con un interlocutore assente, da cui io dipendo, che impiega del tempo a darsi, come se dovesse indebolire il mio desiderio, per metterlo alla prova e scoprire fino a che punto può arrivare.
Una gara di resistenza che non assomiglia alla seduzione tradizionale. Basata sull’inganno, infatti, la seduzione richiede una conferma immediata e manca di prospettiva. L’attesa, invece, trova la sua ragione nella forza che il sentimento ha di proiettarsi nel futuro. Chi ama, infatti, non riesce a ragionare se non nei termini del sempre.
Amor che nullo amato amar perdona diceva Dante. Il sentimento induce il sentimento, in realtà non sempre ci sono questi automatismi.
A volte vedere l’amore dell’altro così potente, così convinto, ci dà la sensazione di trovarci con le spalle al muro. Il sentimento che ci investe fa sentire in trappola, indifesi, privati della libertà di scegliere liberamente. L’amore dell’altro ci spaventa, sembra un vincolo, un impegno, la fine dei giochi, e spinge alla fuga. Ma se è vero, alla fine, ci attira e inesorabilmente ci invischia e ci cattura.
Può essere definito amore un sentimento così ambivalente? Può essere definito amore un rapporto che nasce da un inseguimento, una fuga, un ritorno, una resa? Può essere definito amore un sentimento che non è frutto di un innamoramento reciproco, uno stato nascente che ci dà immediata felicità, ma piuttosto di sofferenza, delusione, attesa? E soprattutto saremo in grado, una volta vittoriosi, di perdonare al nostro amato di non averci amati subito e tanto quanto l’abbiamo amato noi? Quanta insicurezza ci porteremo dietro in questo rapporto, quanto desiderio di rendere almeno una parte di quella frustrazione che abbiamo sopportato nel tempo della conquista?
La verità dell’amore non è mai univoca, non è mai solo luce, per amare bisogna sporcarsi le mani e accettare il fatto che i toni dell’amore sono spesso crepuscolari.
A volte ci vuole una vita intera perché questo avvenga come ne “L’amore ai tempi del colera” di Garcia Marquez. Ma in questo romanzo l’attesa di Florentino Ariza avviene nel segreto del suo cuore all’insaputa di Fermina Daza.
Capita che sfiori la vita di qualcuno, ti innamori e decidi che la cosa più importante è viverlo, arrivare a riconoscersi nello sguardo dell’altro, sentire che non ne puoi fare a meno…e che importa se per avere tutto questo devi aspettare cinquantatrè anni, sette mesi e undici giorni notti comprese?
Quando invece l’attesa è imposta come gioco di potere dall’amato allora gli esiti possono essere imprevedibili, perché in amore i tempi sono tutto.
”Un mandarino era innamorato di una cortigiana -Sarò vostra-disse lei-solo quando voi avrete passato cento notti ad aspettarmi seduto su uno sgabello, nel mio giardino, sotto la mia finestra (Far aspettare, prerogativa costante di qualsiasi potere, passatempo millenario dell’umanità)… ma alla novantanovesima notte il Mandarino si alzò, prese lo sgabello e se ne andò.
Mi chiamo Alessandra Pennetta, sono un’insegnante di Storia e Filosofia, divorziata, fidanzata. Ho due figli di 17 e 21 anni, una madre ottantenne, un bassotto pelo ruvido. L’idea di fare un blog nasce dal piacere di comunicare, di dare e ricevere consigli, di stare al mondo con una postura nuova, affrontando gli eventi in modo attivo, tonico, personale.