Il tempo passa? No, il tempo resta, noi passiamo. Ancorati ad un immaginario di eterna gioventù, ci sentiamo vivi solo se inquieti. Sembra un imperativo quello di agire, cambiare, muoversi. E quando la vita ci costringe a rallentare, scambiamo il naturale bisogno di stabilizzarci, di trovare un equilibrio più solido nel posto in cui siamo, con l’arrivo della fine dei giochi. Incapaci di crescere, terrorizzati dall’invecchiare, pretendiamo l’eternità, cercando di fissare il nostro corpo in un fotogramma della migliore versione di noi stessi, trasformandolo, inevitabilmente, in un patetico fotomontaggio.
L’unico respiro che concediamo alla nostra anima, piccolo soffio dimenticato in un corpo idolatrato, è l’amore: quello che magari avevamo incontrato senza riconoscerlo, quello che crediamo di intravedere in rapporti fondati su una “filosofica”libertà reciproca che ci spaventa chiamare disimpegno, quello che arriverà e ci farà sentire amati, finalmente, per quello che siamo veramente. L’amore cioè come soluzione esistenziale.
So tutto delle tue magie e tu della mia intimità, sapevo delle tue bugie, tu delle mie tristi viltà. So che hai avuto molti amanti, bisogna pur passare il tempo, bisogna pur che il corpo esulti, ma c’è voluto del talento per riuscire ad invecchiare senza diventare adulti. La canzone dei vecchi amanti
La verità è che aspettare che la soluzione del nostro vivere ci arrivi miracolosamente dal riconoscimento di un’altra persona significa vacillare pericolosamente in una condizione di perenne frustrazione, accontentandosi di essere scontenti per non doversi assumere il rischio di essere consapevoli.
Nel film di Tom Ford A single man il protagonista, affermato professore universitario, avendo perso in modo traumatico il compagno di una vita, elegante e patinata, medita il suicidio. La solitudine originata dalla perdita diventa rapidamente isolamento. Alla luce della sua intenzione di morire senza l’amato, la sua precedente condizione di felicità appare fasulla perchè fondata solo sulla fragilissima presenza dell’altro. L’intero mondo di George si regge sulla vita di Jim. E quando l’incontro con un giovane studente sembra poter allontanare la tentazione del suicidio, il protagonista muore all’improvviso, beffato da un infarto. Probabilmente, se non fosse accaduto, avrebbe fatto lo stesso errore di incentrare la sua esistenza sul nuovo amante, ma il suo cuore cede. Cede non per la mancanza dell’amante, ma per l’incapacità di prendersi cura di se stesso, di avere amore per sè. La raffinata estetica del film, l’estrema cura dell’aspetto e del dettaglio evidenzia, per contrasto, l’incapacità del protagonista di prendersi cura anche della propria anima.
Una dimensione affettiva interamente dipendente da un’altra persona, senza essere preceduta da un sincero affetto per se stessi, porta inevitabilmente al disastro.
Nell’antica Grecia i filosofi ponevano la conoscenza e la cura di se stessi alla base di ogni azione.
La prassi è un’azione consapevole, un agire che ha alla base un sistema di valori, un’idea forte. C’è un pensiero importante e un’azione conseguente. Oggi vivere senza regole, in un sistema emozionale fluido, in un’adesione superficiale a mode e consuetudini è diventato il valore. Il principio di non contraddizione, alla base della logica, un optional mortifero. Figo è chi cambia idea continuamente tanto la velocità degli accadimenti non aiuta la memoria di chi ascolta, l’importante è dire parole incisive e dimostrare di esserne convinti. Il che è facile dal momento che, avendo dentro un vuoto pneumatico in cui a malapena ci si avventura, non siamo neanche convinti di mentire, bugiardi nostro malgrado.
Conoscere se stessi presuppone la fiducia di essere qualcuno, unico, forse non speciale, irriducibile comunque a chiunque altro. Fiducia che può trovare un fragile supporto in un superficiale ottimismo, ma che può fondarsi stabilmente solo in una totale resa alla verità.
Se si vuole sul serio conoscere se stessi bisogna imparare a dirsi tutta la verità senza sconti.
Nello spazio indefinito tra l’essere e il dover essere si gioca tutta la nostra vita. Nel sogno infantile di essere il centro del mondo, di tenere tutto sotto controllo, di poter diventare supereroi invincibili, belli, giovani, realizzati nel lavoro, con famiglie del Mulino Bianco e vite sociali scintillanti, si consuma il nostro immaginario collettivo.
La frustrazione di non aderire ai modelli immaginati divora tutte le nostre energie.
Non conosciamo il nostro valore, che è tanto più grande quanto più ci scopriamo limitati e fragili. Ma per accettare di essere imperfetti bisogna essere maturi. E per crescere veramente bisogna rallentare, imparare a stare soli con noi stessi, mettere radici in un sistema di valori fondanti che ci rappresenti e ci guidi nelle scelte. Gattonare ricercando solo ciò che ci piace e ci fa stare bene, di volta in volta, non può essere il modo giusto di stare al mondo. E’ vero che non cresciamo in assoluto con lo scorrere del tempo, come diceva Anais Nin, siamo parziali, maturi in un ambito, infantili in un altro. Il passato, il presente, il futuro possono bloccarci o, addirittura, farci regredire. Ma una vita veramente piena non può prescindere dal tentativo di ricomporre tutti i frammenti della nostra anima in un disegno unitario. Prima di svegliarci vecchi dovremmo almeno tentare di diventare adulti.
Mi chiamo Alessandra Pennetta, sono un’insegnante di Storia e Filosofia, divorziata, fidanzata. Ho due figli di 17 e 21 anni, una madre ottantenne, un bassotto pelo ruvido. L’idea di fare un blog nasce dal piacere di comunicare, di dare e ricevere consigli, di stare al mondo con una postura nuova, affrontando gli eventi in modo attivo, tonico, personale.